
Scusate il ritardo: il caffè nel secondo grande film del grande Massimo Troisi
Articolo scritto da Michele Sergio e pubblicato su Il Roma del 08 aprile 2018
Timido, introverso e impacciato, fiero, orgoglioso e volitivo, dedito al suo (e nostro) dialetto, icona del giovane meridionale di fine ‘900, tra insicurezze e principi morali, cinismo e generosità , Troisi è la migliore rappresentazione del napoletano e di Napoli dei recenti anni passati, della contraddizione storica tra tradizione e cambiamento, tra eredità importanti e nuovi linguaggi, nuovi costumi. Resta per sempre nei nostri cuori a dispetto degli oramai 25 lunghi anni già trascorsi dalla sua prematura scomparsa. Il caffè, elemento di tradizione napoletana per eccellenza, è costantemente presente nell’opera troisiana, ne è, spesso, il silente caratterista, il perfetto accompagnamento di scena, il discreto sottofondo di dialoghi.
Nella pellicola del 1983, la seconda regalataci da Massimo, Scusate il ritardo – opera apprezzatissima da critica e botteghino dove la mano dell’attore-regista è decisa e decisiva, tra riprese fisse e prolungati, brillantissimi, dialoghi – Vincenzo (Troisi) e Tonino (Lello Arena) inscenano le difficoltà relazionali di due ragazzi “normali” con le donne, sempre più emancipate, sicure, padrone del loro presente e desiderose di un futuro da protagoniste, nella vita e nella relazione di coppia. La storia tra Vincenzo e Anna (una splendida Giuliana De Sio), in particolare, sconta proprio l’incapacità del maschio di adeguarsi e fronteggiare la più avanzata maturità personale, psicologica, relazionale ed affettiva della femmina, tra alti e bassi, complicità e incomprensione.
Tra un caffè e un altro! Come non ricordare un passaggio cult del film, dove Massimo-Vincenzo opera riflessioni socio-psicologiche sul modo di bere caffè, cartina di tornasole della condizione esistenziale dell’individuo. La scena: dopo avere fatto l’amore con Anna, Vincenzo desidera un buon caffè e si reca nella cucina del vicino (un attempato professore, single e spesso assente da casa, per la gioia di Vincenzo che, in possesso delle chiavi dell’appartamento, lo utilizza – con maniacale attenzione, cura e prudenza – per i suoi clandestini incontri amorosi con Anna) dove – tragedia – rinviene solo una moka da una tazza. Di qui l’osservazione del grande Massimo: la macchinetta più piccola, afferma, “è il massimo della solitudine”: non solo vivi da solo (riferendosi al maturo padrone di casa), ma ti precludi anche la possibilità di ricevere viste, di offrire un caffè ad un eventuale ospite. Bere caffè è estrinsecazione di socialità per il Napoletano, atto e piacere da condividersi necessariamente, azione minima e massima dell’animale sociale (che è il napoletano). Non è possibile, insomma, per Vincenzo, disporre in casa di una sola moka da una tazza, significa avere un problema relazionale, escludere, cioè, la possibilità di ospitare persone, di offrire loro il consueto, cordiale e obbligatorio caffè! Troisi fa sua l’antica lezione napoletana in fatto di caffè: berlo è momento sociale e socializzante, miglior modo d’attendere la visita, condivisione, dovere del bravo ospite. Ed allora recepiamo la lezione di Troisi: in casa almeno una tre tazze (anche se si vive da soli). Buon caffè a tutti.
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